Pokémon GO ha cambiato tutto, di nuovo - speciale

Pokémon GO Foto Speciale

Pokémon GO: il successo planetario del gioco per smartphone in realtà aumentata che sta facendo impazzire il mondo.

Estate 2001. Sono al solito bar con gli amici di sempre. La radio ci ricorda con le tre parole di Valeria Rossi quanto in basso possa cadere la musica pop italiana, il Napoli è appena ritornato in Serie B e la dirigenza continua a latitare e fare orecchie da mercante, un giovanissimo Kobe Bryant ha vinto il suo secondo titolo NBA consecutivo lasciando capire quanto sarà importante per il futuro del basket, il cabinato che monta Metal Slug annusa con avidità gli spicci nelle nostre tasche. Tutto questo, però, ci interessa ben poco: abbiamo la testa abbassata sul Game Boy Color e gli occhi pieni di Pokémon Oro.

Estate 2016. Sono al solito bar con gli amici di sempre. La tv a schermo piatto da troppi pollici ci ricorda quanto in basso possa cadere la musica pop italiana con il mare nazional-popolare di J-Ax, il Napoli è appena ritornato in Champions League e la dirigenza continua a latitare e fare orecchie da mercante, un acciaccatissimo Kobe Bryant ha annunciato il suo ritiro lasciando capire quanto sia stato importante per la storia del basket, il cabinato che monta il videopoker annusa con avidità gli spicci nelle nostre tasche. Nonostante tutto questo ci possa interessare, abbiamo la testa abbassata sugli smartphone e gli occhi pieni di Pokémon GO.

Per quelli della mia generazione, Pokémon è un’icona. Al netto dei gusti, di quelli che preferiscono il cartone al gioco, di quelli che “no Ash è troppo stupido, non si può liberare Charizard così, io sono più bravo”, e con buona pace di quelli con i genitori oltranzisti che mai e poi mai avrebbero fatto trovare al loro pargolo un Game Boy sotto l’albero di Natale (a proposito, non sapete che vi siete persi), è difficile, praticamente impossibile non aver dedicato almeno dieci minuti della propria attenzione ai mostri di Satoshi Tajiri, se si è nati a cavallo fra la fine degli ’80 e gli inizi dei ’90.

L’isteria di massa che circa vent’anni fa colpì lo Stivale e, più in generale, l’Occidente, fu trasversale. Non solo l’anime e il videogame di cui sopra, ma anche album di figurine, giocattoli, action figure, gioco di carte collezionabili, linee di abbigliamento, oggetti di cancelleria, addirittura la distribuzione del film al cinema, fortuna di cui un brand forte e storicizzato come Dragon Ball, per fare un esempio, avrebbe potuto giovare soltanto anni e anni dopo, in un’operazione commerciale nostalgicamente ruffiana... C'erano persino le merendine! Ancora oggi, se siete in compagnia di persone intorno al giro di boa del primo quarto di secolo, Pokémon può essere un ottimo argomento di conversazione per uscire dallo stallo di un silenzio imbarazzante.

Come spiegare quel successo? Certo, la simil-joint venture formata da Fininvest e Giochi Preziosi e le loro scelte di marketing hanno sicuramente contribuito, sempre restando in ambito nostrano, al successo della serie animata e conseguenti derivati, ma come dare un spiegazione razionale a tutti i segni positivi registrati dai contabili di Nintendo in quegli anni? Si potrebbe dire che il gioco è, ovviamente, arrivato in Occidente nel momento giusto, si potrebbe dire che sapeva offrire un’esperienza di gameplay divertente e appagante, si potrebbe dire che la vasta gamma di mostriciattoli presenti già nelle prime due generazioni di Pokémon offriva possibilità praticamente illimitate di approccio all’esperienza di gioco, in modo che ogni singola partita di ogni singolo giocatore non assomigliasse a quella di un altro, e non sarebbe molto lontano dalla soluzione dell’enigma.

Nintendo e lo straordinario successo dei Pokémon

Il successo di Pocket Monster, in realtà, risiede nel suo essere stato social prima dei social media. Prima di Mark Zuckerberg, prima di Jack Dorsey, ancora prima ancora di MySpace e dell’amicizia “obbligatoria” con Tom, Satoshi Tajiri, Ken Sugimori e l’ombra lunga di Shigeru Miyamoto (perché non c’è progetto che coinvolga Nintendo, direttamente o indirettamente, che non passi prima sulla scrivania del Maestro, anche solo cambiare l’arredo degli uffici) riuscirono nell’impresa di creare un connettore di persone che travalicasse le barriere sociali e contribuisse a creare nuovi legami, nuove amicizie.

Ci siamo passati tutti: è il primo giorno dei venti che dovrai passare al mare con la famiglia, non conosci nessuno, ti imbarazza avvicinarti agli altri ragazzini per fare amicizia; basta uno sguardo, però, per notare come anche loro stiano giocando a Pokémon ed ecco che il bottone da attaccare è servito, magari usando il Game Link come cotone.

Pokémon continua ad essere, a vent’anni dalla sua prima apparizione sugli scaffali dei negozi di Akihabara e dintorni, uno dei franchise più famosi e più remunerativi dell’intero panorama videoludico. Finché al mondo esisteranno under 12, The Pokémon Company e Nintendo sapranno di avere una gallina dalle uova d’oro fra le mani. Quello che negli anni è andato scemando, comunque, è la popolarità del titolo presso il pubblico generalista. Sia chiaro, ogni nuova generazione di mostriciattoli, ogni remake di titoli apparsi quando gli under 12 probabilmente gattonavano in giro per casa, mette a referto numeri vicini alle dieci milioni di unità piazzate in giro per il globo; ma se si considera l’espansione globale che l’industria videoludica registra anno dopo anno, capiamo subito come la proporzionalità fra le copie vendute dal marchio Pokémon e il quantitativo di soldi mossi dall’intero circus si assesti su percentuali via via sempre più inferiori.

Nintendo non sta vivendo il momento migliore della sua ultracentenaria vita. I tempi dei 100 milioni di Wii e dei 150 milioni di DS venduti sembrano lontanissimi, nonostante non siano passati nemmeno cinque anni dalla dismissione di tali macchine. Gli infelici risultati registrati con le performance di Wii U, arrivato in meno di quattro anni ad un anticipato pensionamento, hanno portato molti sedicenti analisti di mercato a parlare di un futuro nero, nerissimo, per l’azienda di Kyoto. La scomparsa, prematura e dolorosa, del presidente e CEO Saturu Iwata ha contribuito ad indebolire ulteriormente l’immagine dell’azienda presso gli investitori. L’ultima operazione portata a termine dal primo presidente esterno alla famiglia Yamauchi, comunque, è stata la chiusura dell’accordo con DeNA, colosso giapponese dello sviluppo di applicazioni per smartphone.

Pokémon GO: i Pokémon sbarcano sugli smartphone

Il fatto che un’azienda come Nintendo, paradigmaticamente giapponese in materia di gestione, abbia aperto ad una modifica radicale nella propria programmazione, ha dell’epocale. Nella scelta di sviluppare software per smartphone è insita la presa di coscienza, da parte degli inventori del concetto stesso di gaming portatile, di non essere stati al passo coi tempi; qualcosa che lascia in bocca il sapore di sangue e bile tipico della resa.

All’infuori di questo accordo che porterà alla nascita e al seguente, sorprendentemente inaspettato, successo di Miitomo, Nintendo (e più in generale Pokémon Company) sottoscrive un accordo con Niantic, lo sviluppatore di Ingress, per portare Pikachu e colleghi nella realtà aumentata attraverso Pokémon GO. È il settembre del 2015, il primo colpo all’asse terrestre è assestato. Aumentano le condivisioni sui social, favorite anche dal bel trailer confezionato per l’occasione, cresce il livello generale di curiosità, i media generalisti tornano ad occuparsi dei mostri di Nintendo.

Nei dieci mesi che intercorrono fra l’annuncio di Pokémon GO e quella che sarà la non-proprio-ufficiale uscita del gioco, l’azienda di Kyoto vedrà l’insediamento di Tatsumi Kimishima come presidente, il rumor sul presunto pad di NX, la nuova console di cui Nintendo annuncia l’uscita prevista per marzo 2017, accompagnata da quel The Legend of Zelda Breath of the Wild mostrato all’E3, insieme ai nuovi, canonici, episodi di Pokémon, Sole e Luna, attesi su 3DS. Nessuna di queste notizie muoverà l’interesse dei media e dei network non appartenenti al settore, se non qualche trafiletto affidato con relativa noncuranza alle mani dello stagista sottopagato di turno.

Succede in un giorno come un altro, nell’indifferenza generale di appassionati e non, che Nintendo e Niantic decidano di pubblicare, limitatamente al territorio australiano e neo-zelandese, il tanto atteso Pokémon GO. È il luglio del 2016, l’asse terrestre è completamente capovolto. La notizia fa il giro del globo in una manciata di minuti, i retweet sono continui, i social impazziscono, i download iniziano ad aumentare, alcuni sostengono che da qualche parte su internet sia possibile scaricare il file di installazione anche se non hai un koala in giardino... Molti pensano che la Storia, quella con S maiuscola, non sia una linea retta tendente all’infinito, bensì un cerchio. Gli eventi sono destinati a ripetersi, magari diversi nella forma, ma sicuramente simili nel contenuto. Mi piace pensare che i dirigenti di Nintendo, così come gli impiegati del reparto marketing e della contabilità, appartengano a questa categoria di persone.

Pokémon GO è un successo planetario. Basta una settimana, una singola settimana, affinché il gioco di Niantic salga in vetta alle classifiche dei download (complice l’uscita sugli store digitali americani) e diventi il trend più in voga sui social media, nonostante il fatto che, ufficialmente, il gioco non esista in Europa e che i server non fossero pronti ad uno stress così impellente e così repentino. Una cifra utile a quantificare questo successo? 14 milioni di dollari in quattro giorni. Quattordici milioni. Quattro giorni.

Una formula semplice ma innovativa e adatta a tutti

Cos’è che ha riportato Pokémon in auge? Quale magia c’è dietro il nuovo interesse mostrato nei confronti dei Pokémon e più in generale per la Grande N dalle testate giornalistiche esterne al settore videoludico, interazionali e italiane? Com’è possibile che la mia ragazza, che non s’è mai spinta oltre Wii Sports, Tekken e quel giochino per cellulari, Neko Atsume, si sia dimostrata curiosa di capire come funzionasse Pokémon GO?

Pokémon Go sul cellulare

La formula di Pokémon GO è semplicissima: girando con il cellulare in mano per le strade della città, il giocatore ha la possibilità di incontrare i mostri e catturarli, per poi arrivare nei luoghi più importanti della città e cercare di diventare capopalestra. Tutto qui.

La facilità di utilizzo, l’immediatezza di non dover fare altro che lanciare pokéball al modello 3D inquadrato dalla fotocamera, senza dover stare lì a considerare gli attacchi, i punti vita, gli IV, EV, tutte quella infinita lista di funzioni matematiche che Junichi Masuda e soci hanno colpevolmente allungato negli anni, sono alla base del successo (perché ormai è cosa conclamata) di Pokémon GO. Se a questa semplicità si aggiunge una massiccia dose di nostalgia, elemento che riesce sempre a far presa nel cuore dei consumatori, si capisce il perché dell’isteria generale legata a questo software. La ciliegina sulla torta delle palestre da conquistare sfidando gli altri giocatori in un PvP asincrono, in un meccanismo da "king of the hill", assicura una certa longevità al titolo e la nascita di una, indubbiamente bizzarra, scena competitiva.

Non è da sottovalutare l’importanza del mezzo: da bambini la quasi totalità dei miei amici, così come suppongo anche quelli di voi lettori, aveva un Game Boy, classico o Color che fosse. Ma non tutti crescendo hanno conservato la passione per i videogame, e soprattutto quasi nessuno ha continuato a comprare le portatili Nintendo e i giochi Pokémon. Lo strumento tecnologico imprescindibile, in questo frangete di secolo, è lo smartphone: tutti ne hanno uno, i modelli restano sulla cresta dell’onda per sei mesi. Non averlo equivale all’esclusione sociale. Insomma, lo smartphone è cool, termine che meno di qualsiasi altro riesce ad attarsi alle console portatili. Non è da emarginati farsi vedere in pubblico mentre si gioca col cellulare, non si rischia di apparire meno appetibili agli occhi delle ragazze, e poi dai, cioè... i Pokémon, ti ricordi che figata erano? "Viva i Pokémon tosti e prorompenti tutti differenti, oh sotto casa mia ci sono i Dratini lo giuro, io sono del Team Blu e devo troppo togliere quella palestra al team Rosso, cioè calcola che l’altro giorno stavo venendo al bar e insomma c’era questo Pinsir al centro della strada...".

I social network stanno contribuendo alla diffusione su larga scala del titolo, con un’ondata di video, meme e discussioni generali che ricordano tantissimo, con le dovute proporzioni, quelle che ascoltavo da bambino o poco più nei corridoi a scuola, segno di quanto l’orizzontalità di Pokémon non sia mai scomparsa, ma rimasta in uno stato di quiescenza, pronta ad essere risvegliata da una Nintendo ormai pigra e adagiata sugli allori.

Nell’infinita varietà di opinioni a cui il mezzo-internet da' voce, la fazione che sta ottenendo più proseliti negli ultimi giorni è quella convinta che Pokémon GO possa essere la “salvezza” di Nintendo. Non voglio addentrarmi in questioni di materia economico-aziendale, non è il mio campo di studi e basterebbe la prima matricola di economia e commercio di passaggio a sbugiardare ogni mia affermazione. Voglio altresì affrontare l’argomento dal punto di vista di appassionato videogiocatore e, perché no, fanboy onesto: Pokémon GO, se come me si è amanti della serie canonica, lascia abbastanza perplessi. L’allenamento praticamente non esiste, le battaglie con nemici casuali men che meno; mancano, ad oggi, due elementi imprescindibili del gameplay classico come gli scambi e il PvP, sebbene sia possibile affrontare le palestre in cooperativa.

Ma io, così come tanti altri hardcore gamer, non rientriamo precisamente nel target di riferimento del gioco: Pokémon GO è quello che vuole essere: un gioco per cellulari destinato ad un pubblico vasto, variegato e quanto più “lontano” possibile dai videogiochi. Pokémon GO, così come fecero Rosso, Verde e Blu vent’anni fa, si propone ad un pubblico nuovo, magari anche composto da ragazzini alle prime esperienze con il medium videoludico in generale e con la serie ideata da Tajiri in particolare, ed è proprio questo ciò che deve fare. Con ogni probabilità, l’impatto mediatico non riuscirà ad essere lo stesso ottenuto dal brand sul finire degli anni ‘90, e sono fermamente convinto che a settembre o giù di lì l’utenza attiva di Pokémon GO si sarà dimezzata o quasi, vista la velocità con cui oggi assorbiamo, fagocitiamo qualsiasi prodotto di intrattenimento.

Questa, comunque, deve essere l’occasione di Nintendo per poter ripartire, cospargendosi il capo di cenere e accettando che la posizione da leader del mercato sia andata persa insieme alla palla del rigore di Baggio a USA ’94. I giochi su smartphone non sono per forza il male assoluto e possono anche offrire interessanti riletture di gameplay e serie ormai attorcigliati su sé stessi, soprattutto ora che le console portatili stanno, in modo orgogliosamente silenzioso, morendo. Forse un giorno vedremo un Super Mario su smartphone, o magari una rivisitazione di Animal Crossing in chiave social, oppure uno Zelda in realtà aumentata... Insomma, chissà di cosa parleremo fra quindici anni al bar.