INSIDE - recensione

Se guarderai abbastanza a lungo nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te.

Sentirete il fiato dei vostri inseguitori sul collo, vi sentirete braccati dal rabbioso e feroce guaito dei cani. Ogni colpo sarà un battito in più del cuore e ogni respiro affannato trasmetterà un'ineffabile sensazione d'ansia. Ogni rumore, ogni piccolo tonfo e stridio, praticamente ogni suono in INSIDE ha una storia da raccontare. Una storia raccontata con sopraffina cura per i dettagli sonori, tanto potente da fungere come un resoconto a sé stante dell'ambiente e dei personaggi.

La stessa solenne cura è stata riservata alle animazioni, verosimili, praticamente eccellenti in ogni dettaglio, che si tratti di nuotare, inciampare, camminare o nascondersi, che si tratti dei movimenti dei nemici o di un dettaglio dello scenario. Ci sono voluti ben sei anni per sviluppare questo gioco e si vede, traspare da ognuna di queste minuzie e sottigliezze che, complessivamente, trasformano in affascinante l'irrilevante.

Se la narrativa sottintesa rappresenta un elemento in comune con i Souls, a tal punto sono assolutamente divergenti le scelte di gameplay e design. In Dark Souls la difficoltà nell'orientarsi, nel maneggiare le azioni del protagonista e, in generale, nel proseguire all'interno del gioco, è quasi esasperata. In INSIDE questo tipo di complessità è inesistente e rappresenta una frazione, ad esempio, di quella vista in Limbo. I controlli sono tanto semplici da risultare, azzarderei, magicamente intuitivi. Anche le meccaniche degli enigmi sono state ulteriormente semplificate rispetto a Limbo, forse allo scopo di non rallentare in alcun modo l'evoluzione degli eventi del gioco, della durata complessiva di circa 4 ore, ma così patologicamente insinuanti che difficilmente riusciremo a staccare le mani dal pad prima del suo completamento.

Poco? Forse. Sennonché, nel suo insieme, questo "poco" sfiora quasi la perfezione.

Caos ordinato

Nel 2010, lo stesso anno in cui vedevano la pubblicazione esponenti del genere narrativo del calibro di Alan Wake (Remedy) e Heavy Rain (Quantic Dream), entrambi, a modo loro, soffiando sul pubblico una ventata d'innovazione e sorpresa, Limbo si affacciava sul mercato come uno dei primi esponenti di quel filone indie di videogiochi fatti di sostanza narrativa.

Limbo si insinuava nella mente del giocatore utilizzando un ricco e mondato bianco e nero, pescando dalle intuizioni di titoli come Machinarium (Amanita Design, 2009) e innescando una pioggia di giochi 2D a scorrimento che hanno seguito la scia solcata proprio da Limbo (Never Alone, Monochroma, The Swapper) e che continuano ancora oggi.

La potenza dell'opera prima di PlayDead risiedeva nella rimozione degli elementi superflui, compresa qualsivoglia tipo di interfaccia di gioco, e nella sottolineatura del suo minimalismo esasperato, intensificando l'esperienza del fruitore come solo certi filoni sperimentali del cinema espressionista riuscivano a fare, catalizzando la sua attenzione sugli elementi della fotografia a schermo, diffondendo le emozioni attraverso il lugubre e oscuro paesaggio che invadeva il tutto.

Inside: osservatori

Estrapolando un elemento spesso monopolizzato dal lore di alcuni RPG vecchia scuola e, nella loro accezione moderna più conosciuta, dai Dark Souls di Hidetaka Miyazaki, INSIDE narra per sottintesi e per induzione, estremizzando il tutto attraverso la deposizione d'ogni tipo di comunicazione parlata o scritta e comprimendo la dimensione interattiva al contesto bidimensionale, privando in questo modo il giocatore della totale libertà esplorativa. Se in Limbo e altri giochi del genere la sensazione d'esser confinati al bidimensionalismo è indistinta, in INSIDE, soprattutto nelle prime fasi di gioco, la profondità e il fascino mirabile degli sfondi e delle animazioni farà di tutto per farvi subire amaramente quella privazione. Vorreste rompere lo schema del gioco per fiondarvi nella tridimensionalità maestosa degli scenari, per osservare da vicino gli accadimenti relegati all'orizzonte degli eventi. Non potrete. Il tema centrale di INSIDE è proprio questo: la privazione. La privazione della libertà, la privazione della scelta, la privazione del significato esplicito.

Gli stessi personaggi del gioco sono privi di volto, figure sfumate, abbozzate e informi, eppure riconoscibilmente umane. Non sfugge a questa regola il protagonista, ancora una volta un ragazzino, che stavolta tenta di fuggire in tutti i modi alla cattura dei suoi aguzzini da una sorta di esperimento che, come quasi subito intuiremo, riguarda il controllo della mente e l'annebbiamento della coscienza, rivolgendo lo sguardo alle ormai troppo abusate teorie orwelliane di 1984.

La figura del fanciullo è il feticcio dei PlayDead, una figura che nasconde un messaggio intriso di un dualismo sospeso tra il diabolico e il divino. Forse è lì, a rappresentare la trasmutazione virtuale del fanciullo nietzschiano, terza metamorfosi dello spirito di Zarathustra e simbolo della ricerca della libertà e della creazione di nuovi e più puri valori.

Al fanciullo spetta vedere il mondo con occhi nuovi, superare i valori della vecchia umanità per dare vita all'oltreuomo, capace di sopravvivere alla morte di Dio (cioè alla morte della tradizione). Così il fanciullo di INSIDE pare annunciare la morte definitiva dei canoni videoludici tradizionali, ormai superati dall'alba di nuove possibilità indirizzate a una più profonda e pura rappresentazione esperienziale della cultura e dei valori umani.

Inside: fanciullo con i pulcini

La mescolanza di significati nel gioco si allaccia in qualche modo al discorso di "distruzione creatrice" esplicato da Schumpeter per identificare il processo per il quale, perché qualcosa possa rafforzarsi, quel qualcosa deve necessariamente trasformarsi. In INSIDE accadrà questo: assisteremo alla morte dell'individualismo e alla nascita di un'apparantemente più forte coscienza collettiva. Il disordine necessario per poter scorgere l'ordine delle cose. La metamorfosi dello spirito come metamorfosi del potere. La volontà di potenza che non riesce a esprimersi se non con la violenza.

Ma la vera domanda è: abbiamo mai avuto, veramente, potere?