Perché ho deciso di non guardare il trailer di lancio di Death Stranding

Vale la pena sacrificare una porzione di viaggio potenzialmente eterno per un trailer di 8 minuti?

Per Hideo Kojima, Death Stranding è il lavoro della vita. Il fallimento non è contemplato. Perché in quel gioco è racchiuso il suo riscatto come essere umano e creatore, il suo tentativo estremo e coraggioso di diffondere dignità e grazia, due valori fondamentali per un giapponese come lui, con l'anima impregnata della cultura del suo paese, seppure per attrazione chimica ne abbia assorbita altrettanta di quella occidentale.

Il recupero della sua dignità, come autore indipendente dopo la cacciata da parte di Konami che lo costrinse al silenzio e all'isolamento. La grazia, che si manifesta con la possibilità di poter esprimere la sua sensibilità e la sua morale, collegando ancora una volta il suo cuore e la sua visione del mondo alla forma d'espressione artistica a lui più congeniale: il videogioco.

La biografia sul suo profilo Twitter non mente affatto: «Game Creator: 70% of my body is made of movies». Il perché questi due elementi, "games and movies", siano assolutamente imprescindibili nella dimensione kojimiana, è impresso a fuoco nella storia dei videogiochi, nei suoi tentativi di sintetizzare due mondi così tanto vicini filosoficamente quanto ancora così diversi tra loro nella forma. E se quella lontananza della forma è andata via via approssimandosi nel corso degli ultimi decenni, è stato anche e, azzarderei, soprattutto per merito di Kojima.

Perché Hideo Kojima non è una persona qualunque: è un brillante narratore, regista e game designer. Checché ne dicano i suoi detrattori. Uno dei pochi a essere riuscito nell'impresa complicatissima di fare "cinema NEL videogioco" senza sconfinare eccessivamente nel film interattivo (vedi David Cage e Quantic Dream) o finendo soltanto per imprimere sequenze di "cinema SUL videogioco" (vedi Quantum Break dei Remedy).

Ma allora perché non guardare il trailer di lancio di Death Stranding, diretto e montato da Kojima stesso, se è stato proprio lui a volerlo realizzare e pubblicare?

Prendetemi pure in giro: di primo acchito è stata un'intuizione che riesco a esprimere solo con "sesto senso". Quando ho visto la durata del trailer, quasi 8 minuti, mi sono bloccato e ho aspettato. Ho letto le prime reazioni: "bellissimo", "incredibile", "wow". Ma ho aspettato ancora. Rimembravo le altre reazioni, irritate e irridenti, verso il video della Gamescom che inizia con il protagonista, Sam, addormentato, proprio un attimo prima di svegliarsi e urinare in terra per dare vita a un fungo abnorme. Esatto, quello. Un filmato che ha fatto sorridere anche me, ma per motivi differenti...

Perché conosco Kojima e ho vissuto sulla mia pelle di videogiocatore tutte le sue pazzie. Dal "modo" in cui battere Psycho Mantis in Metal Gear Solid, fino alla deception sulla natura di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, passando per la folle strategia pre-release di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty che spiazzò senza pietà l'intera platea di videogiocatori che da anni aspettava di riprendere il controllo di Solid Snake su PlayStation 2. E invece fu Hideo Kojima, il game designer, a prendere il controllo di noi, videogiocatori. In tutti i modi in cui è possibile esprimere filosoficamente e artisticamente il concetto di "prendere il controllo".

Ma Metal Gear Solid 2 ha avuto una tale potenza e influenza su di me proprio perché fu una sorpresa; del tutto inaspettata. Erano altri tempi (2001) e le informazioni sui videogiochi si raccoglievano soprattutto dalle fiere e sulle riviste cartacee. Non potevo prevederlo, e fu proprio quell'imprevedibilità a imprimere in maniera indelebile quel videogioco nella mia memoria.

«Tutto quello che hai provato, che hai pensato durante la missione, è tuo. Quel che decidi di farne è una tua scelta...», afferma Hideo Kojima per bocca di Solid Snake alla fine di Metal Gear Solid 2. E ha ragione. Il finale (la meta) di Metal Gear Solid 2, che potremmo cinematograficamente paragonare a un gigantesco MacGuffin di videoludiche proporzioni, è meno importante rispetto alla sostanza, alla concettualità (il viaggio) che gli ha dato forma.

Ma dicevo, sul trailer di lancio di Death Stranding. Ho aspettato e resistito alla tentazione nella speranza di leggere feedback "affidabili"... Finché sono arrivati. E non da persone a caso, ma da veterani appassionati che hanno avuto la fortuna di finire il gioco in anticipo rispetto all'uscita ufficiale: Alessandro Bruni e Francesco Fossetti di Everyeye; subito dopo Michele Poggi (Sabaku). E tutti hanno detto la stessa cosa: «Fidatevi, non guardatelo».

Ho tirato un sospiro di sollievo. Sono certo che guardarlo non sarà un problema, per molti. Per me, e per altri sensibili "folli vecchiardi" come me, potrebbe esserlo. Perché la mia sensibilità verso il lavoro di Kojima, per l'esperienza che potrebbe indelebilmente fissare Death Stranding nella mia mente nei decenni a venire, così come ora vi sono impresse tutte le passate esperienze, è massima, è particolare, è preziosa. E non posso sprecarla cedendo all'hype di un semplice trailer, per quanto incredibile e mirabolante possa essere. Perché non sono disposto a sacrificare neanche una minima porzione del "viaggio immortale" che sto per intraprendere barattandola con un trailer di 8 "miseri" minuti.

Ma Kojima doveva osare, doveva esagerare. Perché questo è il suo gioco della vita. Death Stranding è la sua occasione di (ri)sollevarsi imponente davanti al mondo intero. Doveva vincere e convincere. E da ciò che leggo in giro, pare ci sia riuscito alla grande.

Ma io non dovevo essere convinto, caro Hideo. Mi avevi già convinto al "I'm back".