Hidetaka Miyazaki salverà il mondo, perlomeno il nostro - opinione

Hidetaka Miyazaki, attraverso Bloodborne, mi ha spinto a cercare il pentolone d’oro alla fine dell’arcobaleno.

Per un appassionato di videogiochi il mese di luglio non dovrebbe esistere. Come se non bastassero il caldo asfissiante, la sauna gentilmente inclusa nel prezzo del biglietto della metro e i professori che ti invitano a tornare a trovarli a settembre, c’è da considerare anche la latitanza di nuovi giochi sugli scaffali dei negozi di fiducia. L’altro aspetto del mese più caldo dell’anno, però, è la possibilità offerta al giocatore di poter ritornare su qualche titolo lasciato in sospeso, recuperando le lacune accumulate. Personalmente, ho approfittato di questo periodo di ristagna per tornare a Yharnam e completare Bloodborne. Lo so, lo so, è un ritardo colpevolissimo, soprattutto per chi si proclama amante ed esperto di videogiochi al punto da arrivare a scriverne al riguardo, ma il mio rapporto con i soulslike non è mai stato semplice.

Per chi non ne fosse a conoscenza, "soulslike" è il termine con cui viene indicata quella tipologia di gameplay inventata dal genio sadico (oh sì, lo è eccome) di Hidetaka Miyazaki, campione delle scuderie From Software che si è fatto le ossa su Armored Core per poi godersi le luci della ribalta nel 2009 con l’uscita di Demon’s Souls. I soulslike sono sostanzialmente degli action conditi con una spruzzata di elementi ruolistici e rinforzati da una curva di difficoltà immediatamente proibitiva. Se siete qui a leggere quest’articolo e non avete passato gli ultimi sette anni nascosti in un baule fra le palline di naftalina, saprete sicuramente di cosa sto parlando e, con altrettanta probabilità, sarete più esperti di me riguardo tale genere.

Il mio primo contatto con l’operato di Miyazaki risale al 2012, anno d’uscita della Prepare to Die Edition di Dark Souls, il titolo che, a parere unanime di critica e pubblico, ha definitivamente consacrato la presenza del designer giapponese nel gotha degli artisti videoludici (sempre che ne esista uno). Durai tre ore. È eccessivamente oscuro, all’apparenza senza trama, sprovvisto di percorsi ben definiti e troppo, troppo difficile. Evidentemente non ero ancora pronto.

Dark Souls: Prepare to die Quel pollice in su sembra un segno di incoraggiamento: non vi fidate!

Nonostante la settima generazione di console sia stata la più “grande” dal punto di vista numerico, non significa che il divertimento abbia goduto dello stesso incremento, almeno per me. Certo, sono state sperimentate nuove forme di gameplay diventate subito degli standard (Gears of War), il livello narrativo ha raggiunto l’apice (The Last of Us, Bioshock), il gioco open-world è stato definitivamente sdoganato e alcune serie storiche hanno assistito allo stato di grazia dei capitoli meglio riusciti da anni a questa parte (Super Mario Galaxy, GTA V), ma allo stesso tempo l’offerta generale del mercato, per ciò che concerne i titoli dai maggiori valori di produzione, ha subito anche un complessivo appiattimento.

La volontà di sperimentare nuovi generi, la capacità di creare mondi coerenti a sé stessi che non fossero soltanto delle enormi praterie fatte di noia e torba, è mancata nelle intenzioni e nei piani aziendali dei grandi produttori. Ubisoft ha reiterato la formula di Assassin’s Creed fino all’esasperazione, Activision ha reso Call of Duty un horror vacui fatto di fucili, astronavi, zombi, ricchi premi e cotillon, Electronic Arts ha capito che bastava disegnare le texture delle nuove divise per vendere i giochi sportivi ogni anno a prezzo pieno...

Mentre tutto questo avveniva in occidente, l’industria giapponese dei giochini perdeva man mano d’importanza. L’unico studio che riusciva a tirare avanti e mostrare qualcosa di nuovo era quel From Software di cui sopra, guidato da quel Hidetaka Miyazaki di cui sopra, il cui Dark Souls di cui sopra continuava a macinare numeri da record, oltre che lodi e applausi ad ogni apparizione. Io, intanto, pensavo ancora a quei €60 buttati via.

La scorsa primavera, in una noiosa domenica di aprile, giravo fra le pagine dei mercatini online in cerca di qualcosa con cui nutrire la mia PS4, affamata di giochi che non fossero FIFA o NBA 2K. Bloodborne è entrato in casa mia così, in punta di piedi e guardato con un certo scetticismo: la bruciatura per i soldi lanciati al vento del primo Dark Souls era ormai passata e mi sentivo pronto a provare una nuova esperienza di gameplay che sapesse ridestarmi dalla noia in prima persona che ultimamente va per la maggiore. Avevo un’idea per sommi capi di ciò a cui andavo incontro, e non nego che la curiosità di capire il perché di tutti quei voti alti sui siti specializzati insistesse molto alle porte del mio cervello. Ciò che non immaginavo era la possibilità di innamorarmi di un disco fatto di silicio.

Bloodborne di Miyazaki e From Software

Le esperienze accumulate nella vita sono ciò che ci formano come persone. Cadere dalla bici ci insegna a non scendere le scale su due ruote, mangiare un kebab alle tre di notte ci rende consapevoli dei nostri limiti fisici, provarci con quella ragazza lì non può che aumentare la stat del coraggio. Anche il gioco può essere un’esperienza formativa, tantissimi scritti di pedagogia sono lì a dimostrare il valore educativo che l’attività ludica può avere sul bambino. Nulla vieta, comunque, che tale epifania possa avvenire a venti e passa anni. Il videogioco nasce come semplice forma di intrattenimento, nulla da eccepire al riguardo, ma nel corso della sua evoluzione come medium, il peso specifico dell’esperienza è mutato.

Il cinema, il parente più prossimo dei videogiochi, è nato anch’esso come forma di intrattenimento a buon mercato. Oggi, a oltre cento anni da quelle scene di operai che escono dalle fabbriche dei fratelli Lumière, nessuno avrebbe il coraggio di dire che il cinema non può influenzare gli individui e il loro modo di rapportarsi alla vita, l’universo e tutto quanto. Ciò che cambia fra i due media è la fruizione: se al cinema rimaniamo seduti e subiamo passivamente la pellicola, nel videogioco non succede nulla finché non decidiamo di muovere i tasti verso una direzione. Ma andiamo con ordine.

“…la mia opinione personale è che il mondo in cui viviamo sia un posto difficile, duro. Creare uno scenario che sia sempre tollerante nei confronti dei giocatori non corrisponde alla mia visione del mondo reale. Che si tratti di natura o della società, spesso si ha a che fare con un contesto tutt’altro che accogliente, e la cosa si riflette nei miei giochi...” — Hidetaka Miyazaki

Bloodborne è difficilissimo. Buio, cattivo, ti prende a calci sulle gengive dopo nemmeno un quarto d’ora dall’inizio del gioco e non ti chiede nemmeno scusa. La voglia di lanciare tutto dalla finestra è lì sul divano seduta accanto al giocatore, che intanto si domanda come avrebbe potuto spendere meglio quei soldi. Eppure il sistema di combattimento diventa meno ostico dopo un paio d’ore; eppure il livello di sfida viene accettato, assimilato e affrontato; eppure l’idea di dover morire se non si è abbastanza attenti entra subito nella mente del giocatore. La voglia di continuare, di riuscire a vincere con impegno e caparbietà, la soddisfazione che deriva dal vedere il boss di fine dungeon cadere sotto i colpi d’ascia inferti con tempismo e precisione aumentano il livello di endorfine nel sangue in maniera esponenziale.

Nella vita sono sempre stato rinunciatario. Magari per pigrizia, forse perché incapace, ma ho lasciato perdere fin troppe cose. Ho provato (leggasi: mi hanno trascinato agli allenamenti di) una mezza dozzina di sport con risultati in bilico fra il disastro e il tragico; ho tentato il percorso nella musica, ma il fatto che non diventassi magicamente Paul Simonon prendendo il basso in mano non mi andava giù; le relazioni interpersonali avute finora sono quasi tutte naufragate alle prime avvisaglie di incomprensioni... Dallo scorso aprile però, ho iniziato a vedere le cose in modo diverso. Hidetaka Miyazaki, attraverso Bloodborne, mi ha spinto a cercare il pentolone d’oro alla fine dell’arcobaleno, anche se arrivare a tale meta ha significato attraversare una valle di lacrime e sangue. Non ci siamo mai visti, io e Miyazaki, eppure mi ha insegnato tantissimo senza che ci sia stato fra di noi alcuno scambio di parole.

Foto di Hidetaka Miyazaki

L’esperienza di gameplay elaborata da Hidetaka-san e i suoi collaboratori ha una fortissima valenza educativa, riesce ad entrare nell’anima del giocatore e a plasmarne la mente. Non voglio dilungarmi sui singoli aspetti tecnici del gioco, non è più tempo di parlare dell’eccezionale sistema di combattimento, della direzione artistica validissima e del level design da applausi scrocianti; ciò su cui voglio concentrare l’attenzione del lettore è il valore artistico di Bloodborne: se l’arte, a prescindere dalla forma che le si vuole dare, è la trasmissione di un messaggio, allora il lavoro di Miyazaki può fungere da freccia all’arco di coloro i quali si battono per il riconoscimento dei videogiochi come forma artistica. Bloodborne riesce a comunicare qualcosa di forte ai suoi fruitori, a patto che quest’ultimi accettino di entrare “dentro” di esso, di diventare la parte attiva di tale opera che, altrimenti, non avrebbe modo di spiegarsi. Qui, quindi, tutta la differenza con il cugino nato in Francia e il suo modo di trasmissione delle idee.

Nel corso di questi sette anni passati dall’uscita di Demon’s Souls, diversi sviluppatori si sono affacciati nel mondo dei soulslike. Non avendone giocati altri che non fosse Bloodborne, devo rimettermi al giudizio dei miei colleghi e constatare che esistano diverse interpretazioni del genere, con forme diverse e dai risultati più disparati. Riesco ad accettare la cosa, è normale che non tutti gli esponenti di una categoria abbiano valori simili, altrimenti non ci sarebbero gradi di separazione fra Knack e Super Mario 64, i One Direction e i Beatles, Andrea Bertolacci e Andrés Iniesta.

Questo interesse, però, dimostra come Hidetaka Miyazaki abbia saputo creare una nuova strada per lo sviluppo dei cosiddetti giochi Tripla A, in un mercato dove le nuove idee vengono relegate al circuito delle produzioni indie e osteggiate dal grande pubblico. Il fatto che Bloodborne e i capitoli di Dark Souls abbiamo congiuntamente superato le dieci milioni di unità vendute è sintomatico di quanto l’ormai variegatissima utenza sia affamata di nuove esperienze, anche “dolorose”, pur di uscire dal pattume. Questi utenti non devono essere sottovalutati, in quanto possono indirizzare il nuovo percorso dell’industria videoludica e restituire il lustro che i giapponesi hanno perduto in questi anni. Miyazaki, nel buio gotico della sua mente, ha dato vita ad una rivoluzione artistica prima che tecnica. Miyazaki è il rivoluzionario che salverà l’ars ludica.

Io, intanto, vado a vedere se il vecchio salvataggio di Dark Souls è ancora lì.